(di prossima pubblicazione in Danno e responsabilità, IPSOA, Milano)

GIURISPRUDENZA ∙ SINTESI

Itinerari della giurisprudenza

RESPONSABILITA’ CIVILE PER ILLECITO COMPIUTO DA MINORI
a cura di FRANCESCO DI CIOMMO

I. Tra le norme del codice civile sull’applicazione delle quali, negli ultimi anni, ha maggiormente inciso l’elaborazione dottrinale e pretoria, va senza dubbio segnalato l’art. 2048, a tenore del quale, per i danni derivanti dal fatto illecito commesso dal minore, rispondono in solido con lui i genitori, il tutore, i precettori e gli insegnanti, e più in generale tutti gli adulti a cui i minori vengono affidati, a meno che non riescano a provare di non aver potuto impedire il fatto. La disposizione citata, infatti, al di là della sua semplice formulazione letterale e della sua apparentemente piana interpretazione, nasconde insidie applicative che per molti anni la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha mostrato di soffrire. Una delle questioni più spinose ha riguardato l’operatività della disciplina in parola ai danni che il minore cagiona a sé stesso mentre è affidato ad uno o più adulti, prima che le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza 27 giugno 2002 n. 9346 , risolvesse il contrasto affermando che «nel caso di danno arrecato dall’allievo a sé stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non va ricondotta nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, bensì in quello della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c.» . Ulteriori problemi, nei tribunali italiani, si sono manifestati riguardo all’applicazione della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2048 nei confronti della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti, ed altri ancora riguardo ai contenuti della prova liberatoria che precettori, insegnanti, tutori e genitori sono tenuti a dare per liberarsi da tale presunzione, ovvero riguardo all’operatività dei principi in materia di concorso colposo del danneggiato in caso di illecito compiuto dal minore. Al fine di verificare quali siano stati gli orientamenti manifestati dalla giurisprudenza negli ultimi anni su ognuno di tali versanti, giova passare in rassegna le pronunce che seguono.

II. Con la sentenza 19 marzo 2004, il Tribunale di Bologna si pronuncia sul danno subìto, senza che vi fosse stato nessun contatto con terzi, da un alunno di scuola media statale nel corso di un esercizio ginnico compiuto secondo le istruzioni dell’insegnante nell’ora di educazione fisica (nella specie, un salto da uno degli ultimi appoggi del c.d. quadro svedese), ed afferma la responsabilità risarcitoria dell’insegnante colpevole di aver fatto eseguire ad un allievo non dotato di particolare abilità atletica (ed anzi, «piuttosto basso e tondeggiante») un esercizio tendenzialmente pericoloso con modalità diverse (maggiormente impegnative, in quanto il salto doveva essere compiuto da un appoggio posto più in basso) rispetto ai programmi scolastici, peraltro omettendo di utilizzare l’attrezzatura idonea ad evitare l’infortunio poi concretamente verificatosi. La pronuncia, richiamando espressamente il precedente delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 9346/2002, risolve la questione escludendo espressamente l’applicabilità al caso concreto dell’art. 2048 c.c., nonché dello speciale regime previsto dall’art. 61, comma 2, legge n. 312/1980, visto che sia l’uno che l’altro presuppongono, necessariamente, un danno cagionato al terzo dal fatto illecito dell’allievo, mentre ciò che veniva prospettato dall’attore, negli atti di parte, era in realtà un addebito diretto mosso all’insegnante, e quindi, in base al principio di immedesimazione organica, al Ministero dell’Istruzione. Proprio facendo leva su tale aspetto peculiare della vicenda in esame, oltre che sull’interpretazione data dal giudice delle prospettazioni e delle richieste del danneggiato, il Tribunale di Bologna riconduce la responsabilità dell’insegnante, e quindi del Ministero, non già nell’alveo contrattuale, bensì in quello extracontrattuale, affermando l’applicabilità dell’art. 2043 c.c.; con ciò allontanandosi – seppure esclusivamente sotto questo aspetto – dal precedente delle Sezioni Unite, ed argomentando tale allontanamento sulla base del fatto che, a differenza del caso sottoposto alla sua attenzione, in quello oggetto della pronuncia della Cassazione il minore si era procurato un danno da sé .

III. Il problema dell’applicabilità della disciplina speciale della responsabilità dei dipendenti dello Stato anche agli insegnanti per il danno patito dai minori affidati alle loro cure, è stato di recente affrontato nuovamente dalla terza sezione della Cassazione, in particolare con la sentenza del 10 maggio 2005, n. 9758, in cui si è affermato testualmente che: «L’art. 61 della legge 11 luglio 1980, n. 312, che ha innovato la disciplina della responsabilità del personale della scuola per i danni prodotti ai terzi nell’esercizio delle funzioni di vigilanza degli alunni, si riferisce esclusivamente ai rapporti tra l’Amministrazione statale ed il personale degli istituti di istruzione, allo scopo di riequilibrare, sotto l’aspetto della responsabilità patrimoniale, la posizione del personale della scuola con quella del restante personale della Pubblica amministrazione. Ne consegue, per un verso, che detta disciplina non si applica al personale dell’Amministrazione Pubblica non statale alla quale appartengono le scuole comunali, per l’altro, che la limitazione della responsabilità degli operatori della scuola ai casi di dolo e colpa grave è fissata soltanto nell’ambito dei rapporti con l’Amministrazione e dell’eventuale giudizio di rivalsa che essa dovesse intraprendere contro l’insegnante davanti alla Corte dei Conti, dopo avere subito una condanna a favore del terzo danneggiato, senza nulla mutare nei rapporti verso i terzi per i quali, nei giudizi di responsabilità connessi all’attività di vigilanza sugli alunni, resta in vigore la presunzione di cui all’art. 2048 c.c., comma secondo». Nel caso di specie, la sentenza della corte di merito, la cui motivazione è stata corretta dal Supremo Collegio nei termini appena riferiti, aveva escluso l’applicazione della disciplina codicistica in una controversia concernente la responsabilità dell’ente locale per il danno patito da un ragazzo ospite di un centro estivo gestito da un Comune.

IV. Molto efficace, per definire la portata della disciplina speciale operante in materia di responsabilità dei dipendenti dello stato e, in particolare, degli insegnanti, si rivela la pronuncia di Cassazione (sempre terza sezione) n. 2839, datata 11 febbraio 2005, nella quale si chiarisce che: «la sottrazione degli insegnanti delle scuole statali alle conseguenze – ritenute troppo gravose – della affermata applicabilità nei loro confronti della presunzione di cui all’articolo 2048, comma 2, del c.c, nei giudizi di danno per culpa in vigilando, è attuata dalla legge n. 312 del 1980 non sul piano sostanziale (ovvero incidendo sulla operatività del precetto di cui all’articolo 2048, comma 2, del c.c., in detti giudizi), bensì esclusivamente sul piano processuale, stabilendo l’articolo 51, comma 2, seconda parte della citata legge che, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l’amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi. La tutela, pertanto, lungi dall’escludere la applicabilità dell’articolo 2048, comma 2, del c.c. agli insegnanti di scuole statali, opera esclusivamente sul piano processuale mediante l’esonero dell’insegnante statale dal processo, nel quale unico legittimato passivo è il ministero della Pubblica istruzione, nei cui confronti continua ad applicarsi, per il tramite dell’insegnante, la presunzione, sia pure solo nel caso di danni arrecati da un alunno ad altro alunno e non nel caso di danni che l’allievo abbia prodotto a se stesso».

V. In questa prospettiva, giova segnalare anche la sentenza n. 9752 del 10 maggio 2005, con cui la Cassazione, partendo da un caso pratico in cui veniva in rilievo l’applicazione dell’art. 2048 c.c., ha precisato che: «anche dopo l’estensione della personalità giuridica, per effetto della legge n. 59 del 1997 (legge delega) e dei successivi provvedimenti di attuazione, ai circoli didattici, alle scuole medie e agli istituti di istruzione secondaria, il personale docente degli istituti statali di istruzione superiore (nella specie, un liceo scientifico) – che costituiscono organi dello Stato muniti di personalità giuridica ed inseriti nell’organizzazione statale – si trova in rapporto organico con l’Amministrazione della Pubblica Istruzione dello Stato e non con i singoli istituti, che sono dotati di mera autonomia amministrativa. Pertanto, essendo riferibili direttamente al Ministero della Pubblica Istruzione e non ai singoli istituti gli atti, anche illeciti, posti in essere dal menzionato personale, sussiste la legittimazione passiva del Ministero nelle controversie relative agli illeciti ascrivibili a culpa in vigilando del personale docente, mentre difetta la legittimazione passiva dell’istituto». Nell’occasione, i giudici di legittimità hanno anche modo di ribadire che per vincere la presunzione di responsabilità ex art. 2048 c.c. a carico della Pubblica amministrazione, in virtù del rapporto organico con gli insegnanti, nel caso in cui il fatto dannoso si sia verificato nell’ambito di una scuola pubblica, occorre la dimostrazione di avere esercitato la vigilanza nella misura dovuta, il che presuppone, oltre che l’adozione, in via preventiva, di misure organizzative e disciplinari idonee ad evitare una situazione di pericolo, anche la prova dell’imprevedibilità e repentinità, in concreto, dell’azione dannosa.

VI. Ancora il Tribunale di Bologna, con sentenza depositata il 23 settembre 2004, si occupa della richiesta applicabilità dell’art. 2048 c.c. al caso di un allievo di scuola elementare che lamenta ben due sinistri, per lui dannosi, addebitabili, a suo dire, a colpa degli insegnanti. Più precisamente, il minore, attraverso i suoi genitori, chiede in giudizio, ai sensi dell’art. 2048 c.c., la condanna del Ministero dell’istruzione al risarcimento dei danni, per non avere gli insegnanti vigilato in modo da impedire che, nel corso della ricreazione successiva alla mensa, durante una partita di calcio svolta su un prato, egli cadesse e si fratturasse il radio; nonché, relativamente al secondo episodio, per non avergli impedito di giocare con i suoi compagni di classe malgrado avesse il braccio ingessato, sino a scivolare nuovamente con conseguente frattura dell’omero. L’organo decidente, tuttavia, richiamando espressamente la già citata sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, evidenzia come «l’interpretazione letterale della citata norma comporti l’inequivoco riferimento al danno cagionato dal fatto illecito dell’allievo lesivo di un terzo; tale scelta legislativa si giustifica in quanto l’art. 2048 c.c. è concepito come norma di “propagazione” della responsabilità in quanto, presumendo una culpa in educando o in vigilando, chiama a rispondere i genitori, tutori, precettori e maestri d’arte per il fatto illecito cagionato a terzi da quel determinato soggetto, sottoposto alla loro attività in educando o in vigilando». Nel caso di specie, invece, nel corso del procedimento viene accertata la natura autolesiva di entrambi i fatti dannosi denunciati dall’attore, sicché il giudice, sempre ripercorrendo il precedente delle Sezioni Unite, tiene a precisare che: «nel particolare caso di autolesione dell’allievo, il precettore è chiamato a rispondere verso il medesimo per un fatto illecito proprio, consistente nel non aver impedito, violando l’obbligo di vigilanza, che venisse compiuta la condotta autolesiva»; tale obbligo di vigilanza discende direttamente dal contratto che viene a formarsi tra l’allievo e la scuola al momento dell’iscrizione del primo, sicché, «per quanto riguarda l’onere probatorio, nelle controversie istaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico, l’attore dovrà, quindi, soltanto provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere della parte convenuta dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa alla stessa non imputabile, secondo il dettato dell’art. 1218 c.c.», e tale prova, per costante giurisprudenza, «deve essere piena e completa». Nel caso di specie, il Tribunale di Bologna ritiene raggiunta tale prova soprattutto in considerazione del fatto che i due sinistri non si erano verificati in circostanze tali da imporre o suggerire agli insegnanti di intervenire in funzione preventiva, mentre i due fatti dannosi erano sicuramente da considerarsi imprevedibili e, poiché repentini, inevitabili.

VII. Sull’(in)applicabilità dell’art. 2048 ai danni che il minore si procura a da sé, la Cassazione torna espressamente con la sentenza della terza sezione, n. 12966 del 16 giugno 2005, in cui viene ribadito chiaramente che: «La presunzione di responsabilità posta dall’art. 2048, secondo comma, c.c. a carico dei precettori trova applicazione limitatamente al danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito dell’allievo; essa pertanto non è invocabile al fine di ottenere il risarcimento del danno che l’allievo abbia, con la sua condotta, procurato a se stesso; ne consegue che, ove si verifichi un danno a un minore, nel momento in cui lo stesso si trovi sotto la vigilanza del precettore cui era stato affidato, non è sufficiente (nell’ipotesi in cui non venga dedotta anche una responsabilità contrattuale) che il danneggiato provi l’affidamento del minore al precettore medesimo, ma incombe sul danneggiato l’onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa, e cioè l’illecito subito da parte di un altro soggetto. Una volta fornita detta prova, trova applicazione la presunzione di colpa di cui alla norma citata e incombe sull’affidatario l’onere di provare il fatto impeditivo, cioè di non aver potuto evitare il verificarsi del danno, nonostante la predisposizione delle necessarie cautele».

VIII. In tema di contenuti della prova liberatoria richiesta, in particolare, ai genitori, si è espressa la terza sezione della Corte di Cassazione con le sentenza 10 agosto 2004 n. 15419, in cui si è precisato che, in base alla previsione contenuta nell’art. 2048 c.c., in tema di responsabilità dei genitori per il danno cagionato dal fatto illecito del figlio minore, sul danneggiato incombe solo l’onere di provare che il fatto illecito sia stato commesso dal minore ed il danno subito, mentre i genitori, per sottrarsi alla presunzione di responsabilità a loro carico, devono provare di non avere potuto impedire il fatto, intendendosi tale onere probatorio come onere di fornire la positiva dimostrazione dell’osservanza dei precetti imposti dall’art. 147 c.c. relativo ai doveri verso i figli, tra i quali quello di educare la prole. All’affermazione di tale principio la corte arriva all’esito di un giudizio promosso dai genitori di un soggetto che, quando era minore, aveva provocato danno ad un terzo nel corso di un sinistro stradale ed erano stati, per questo, condannati dai giudici di merito, ai sensi dell’art. 2048 c.c., al risarcimento dei danni in quanto non erano riusciti a dare la prova liberatoria di avere ben educato e ben vigilato sul figlio. Con l’unico motivo di ricorso in Cassazione, i ricorrenti lamentano che la sentenza di merito non abbia tenuto conto che la vittima era in riscontrato stato di ebbrezza e che aveva tenuto un comportamento imprevedibile (tanto che in sede penale era stata accertata la sua corresponsabilità al 30%), sicché l’evento era legato a fattori totalmente eccezionali, non riconducili in alcun modo a difetto di educazione, il che doveva escludere la responsabilità dei genitori. I giudici del Supremo Collegio, tuttavia, respingono il ricorso osservando che la presunzione di responsabilità in capo ai genitori opera automaticamente quando il minore cagiona danno ad un terzo e che le modalità del fatto possono certamente dimostrare, se del caso, la carenza di educazione, ma certo non possono giammai dimostrare l’educazione e dunque esonerare i genitori dal fornire la prova positiva di aver ben educato, necessaria per superare la presunzione di responsabilità .

IX. Sempre in materia di doveri dei genitori e di contenuti dell’onere della prova liberatoria loro richiesta ai sensi dell’art. 2048, si segnala anche la recentissima Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322, a tenore della quale: «la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048 c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore capace di intendere e di volere, si concreta nella dimostrazione di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, e di aver esercitato sullo stesso una vigilanza adeguata all’età, tenendo conto delle peculiarità personali e ambientali. Questa prova liberatoria non è desumibile dalle modalità del fatto, atteso che un fatto illecito non può fornire la prova dell’adeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza adeguata, potendo soltanto, a volte, le modalità del fatto rivelare cattiva educazione e immaturità derivanti da insufficiente impegno educativo, ma non il contrario». La pronuncia in parola appare interessante anche in relazione al fatto che la Corte tratta il tema della presunzione di responsabilità dei genitori per sinistro causato dalla circolazione su un motociclo da parte di minore munito di regolare patente. Sul punto, la Cassazione osserva che «prima dell’abbassamento della maggiore età ad anni diciotto, la Suprema Corte aveva escluso che il conseguimento della patente di guida, che aveva effetti solo amministrativi, potesse avere dei riflessi sulla responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c., non esonerando quindi il genitore dal dovere di vigilanza e dalla conseguente responsabilità (Cass. n. 3725 del 1976; Cass. n. 6144 del 1984). Lo stesso principio vale attualmente per i soggetti minori, abilitati alla guida di motocicli o motoveicoli. Il solo fatto che la legge autorizzi i minori alla guida di tali veicoli (previa abilitazione amministrativa) non esonera i genitori, che con loro coabitino, dai loro doveri di vigilanza» .

X. Interessante risulta, altresì, la sentenza n. 1148 del 20 gennaio 2005 con cui ancora la terza sezione della Cassazione affronta il ricorso proposto dai genitori di un minore contro la sentenza della Corte di Appello dell’Aquila, che, in circostanze singolari e ritenendo dimostrato l’affidamento del minore responsabile dell’illecito ad altro adulto, aveva ritenuto raggiunta la prova liberatoria circa il difetto di sorveglianza da parte dei genitori del danneggiante. In breve, i fatti oggetto di esame da parte dei giudici capitolini sono i seguenti: mentre due bambini giocano, l’uno – di sette anni e, per quanto accertato dai giudici di merito, incapace di intendere e volere – colpisce l’altro con un ceppo che ferisce quest’ultimo ad un occhio, con conseguente perdita dell’occhio stesso all’esito di ripetute operazioni con esiti negativi; i genitori dell’infante danneggiato agiscono in giudizio contro il danneggiante e i suoi genitori ai sensi degli artt. 2047 e 2048 c.c., assumendo che il primo era stato lasciato solo dai secondi, colpevoli di mancata vigilanza; questi ultimi, tuttavia, si difendono provando che essi avevano momentaneamente confidato nella presenza del genitore di un altro bambino presente e partecipante al gioco. Mentre i giudici di merito avevano ritenuto che tale prova fosse sufficiente a sollevare i genitori del danneggiante dalla presunzione di responsabilità stabilita dall’art. 2048, la Suprema Corte, nel cassare la sentenza di appello, evidenzia che, considerata l’incapacità dell’enfant terribile, la fattispecie andava più correttamente inquadrata nell’ambito dell’art. 2047, e che, in ogni caso, non bastava ai genitori convenuti dimostrare la presenza di un genitore di un bambino terzo al momento del sinistro per provare di non aver potuto impedire il fatto, e così liberarsi dalla presunzione di responsabilità a loro carico; e ciò in quanto, «la prova della traslazione della vigilanza incombeva al genitore dell’incapace danneggiante, ed è una prova particolarmente rigorosa, poiché la legge esige la dimostrazione di un fatto impeditivo assoluto», sicché non basta la «mera congettura di presunzione semplice (la normalità degli eventi tra persone dotate di buona educazione)».

XI. Sui contenuti specifici che deve avere la prova dell’affidamento del minore responsabile di illecito agli adulti di cui si chiede la condanna in solido con lui, ai sensi dell’art. 2048 (o dell’art. 2047) c.c., ivi compresi gli insegnanti, si sofferma anche la sentenza n. 2272 del 4 febbraio 2005, con cui ancora la terza sezione della Cassazione precisa che: in tema di responsabilità civile regolata dall’art. 2048, il dovere di diligenza dell’insegnante per il danno subito dall’allievo presuppone che l’allievo gli sia stato affidato; pertanto colui che agisce per ottenere il risarcimento deve dimostrare che l’evento dannoso si è verificato nel tempo in cui l’alunno ero sottoposto alla vigilanza dell’insegnante, restando indifferente che invochi la responsabilità contrattuale per negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza o la responsabilità extracontrattuale per omissione delle cautele necessarie suggerite dall’ordinaria prudenza, in relazione alle specifiche circostanze di tempo e di luogo, affinché sia salvaguardata l’incolumità dei discenti minori. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del preside dell’istituto e dell’amministrazione scolastica con riguardo al ferimento con arma da fuoco di un minora da parte di un nomade con il quale questi aveva avuto un litigio il giorno precedente, in quanto avvenuto in un cortile antistante la scuola, che sebbene risultasse recintato e munito di cancello, non era adibito ad esclusivo uso della stessa, essendo transitabile ed accessibile da terzi per il parcheggio di autoveicoli (tanto che il cancello restava aperto dopo l’inizio delle lezioni), neppure rilevando l’uso di tale luogo per la sosta dei discenti ritardatari, atteso che era stato accertato che l’alunno ferito aveva deliberatamente deciso di saltare la prima ora di lezione e si era recato in un vicino bar, prima di far ritorno nel predetto cortile e qui subire l’aggressione del nomade (mentre l’attore aveva sostenuto di essere stato invitato dal preside ad entrare solo alla seconda ora di lezione essendo arrivato tardi per la prima) .

XII. Un problema specifico non secondario è trattato dalla pronuncia n. 2704 del 10 febbraio 2005, con cui la Suprema Corte chiarisce i rapporti tra le norme in materia di responsabilità aquiliana presunta di genitori, precettori, tutori e maestri d’arte e mestieri per fatto illecito del minore, e l’art. 1227 c.c. (ai sensi del quale, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate; mentre il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza), applicabile alla materia della responsabilità extracontrattuale per l’espresso richiamo dell’art. 2056 c.c. I fatti oggetto del caso specifico su cui il collegio capitolino viene chiamato ad esprimersi riguardano la morte di un minore, investito da un’autovettura sopravveniente, nel mentre scendeva da un’altra autovettura attraversando improvvisamente la strada, e la conseguente domanda risarcitoria promossa in giudizio dai genitori del defunto contro il guidatore proprietario della prima autovettura e l’assicurazione della stessa, con riferimento tanto al danno da morte sofferto dal minore, quanto ai danni riflessi patiti da loro in qualità di congiunti della vittima. In primo grado, il tribunale aveva accertato la responsabilità concorrente del guidatore dell’autovettura sopravveniente e dell’adulto a cui il minore investito era affidato al momento del sinistro; ciò malgrado, detto guidatore e la sua compagnia assicuratrice erano stati condannati all’intero risarcimento poiché, pur dovendosi l’evento ascrivere alla condotta di soggetti diversi, i danneggiati, ai sensi dell’art. 2055 c.c., ben potevano pretendere il tutto da uno solo di essi. La sentenza era parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Roma, la quale – per quanto qui conta – contestava al giudice di prime cure di non aver considerato applicabile alla fattispecie l’art. 1227, primo comma, che, contrariamente a quanto aveva ritenuto il tribunale, trova applicazione per quando il danneggiato è un soggetto incapace, cui debba farsi risalire in parte la verificazione dell’evento. In ragione di ciò, la Corte d’Appello riteneva di ridurre alla metà la somma alla prestazione della quale i convenuti erano stati condannati a titolo di risarcimento del danno. Contro tale sentenza ricorrono i genitori della vittima, i quali, tra l’altro, lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 per avere i giudici di appello ritenuto applicabile il principio della proporzionale riduzione del risarcimento del danno in relazione al comportamento della vittima anche quando la vittima stessa sia un incapace, dovendosi prescindere, in tal modo, dalla sua imputabilità e dalla responsabilità del soggetto tenuto a sorvegliarne la condotta. A supporto della loro lagnanza, i ricorrenti affermano che, quando il danneggiante sia un minore incapace di intendere e volere il suo comportamento oggettivamente colposo non deve a lui essere imputato, ma deve fare carico a colui che in quel momento è tenuto a vigilarne il comportamento, con la conseguenza che, dovendo l’evento di danno considerarsi l’effetto delle condotte concorrenti del terzo danneggiante e del sorvegliante, si rende applicabile l’art. 2055 c.c., circa la responsabilità solidale di entrambi e circa il diritto del danneggiato di pretendere da ciascuno di essi il risarcimento del danno nella sua interezza. Peraltro, evidenziano i ricorrenti, l’eventuale contributo colposo della vittima al sinistro è estraneo alla persona del congiunto danneggiato dalla morte, il quale non ha concorso alla produzione del danno da lui subito e non deve subire le conseguenze del fatto ricorrente di un soggetto da lui diverso. La compagnia resistente, di contro, rileva che accogliendo la tesi ermeneutica ed applicativa prospettata dai ricorrenti, il terzo danneggiante finirebbe per rispondere non solo della parte di danno che è a lui stesso imputabile, ma altresì di quella parte che deve farsi risalire al defunto secondo un’ipotesi di responsabilità concorrente del terzo per fatto della vittima che non avrebbe altra spiegazione se non quella di qualificare la fattispecie come un concorso di più autori dell’illecito solidalmente responsabili verso il danneggiato; ipotesi, tuttavia, non configurabile dato che il morto non è autore di un illecito a danno del congiunto. La Suprema Corte, per decidere sul caso concreto, dopo aver ricordato il contrasto dottrinale ancora attuale sul punto, richiama la sentenza n. 351 del 1964 con cui le Sezioni Unite risolsero i dubbi manifestati dai diversi orientamenti giurisprudenziali, affermando che il principio dell’art. 1227 si applica pur quando il danneggiato sia incapace di intendere o di volere per minore età o altra causa, e ciò in quanto: a) il danno che taluno, sia o no capace di intendere o volere, arreca a sé stesso non è danno in senso giuridico e non può essere posto a carico dell’autore della causa concorrente, sia in virtù del principio che il risarcimento deve essere proporzionato all’entità della colpa di ciascun concorrente, sia per l’esigenza equitativa di evitare un indebito arricchimento; b) la nozione di “fatto colposo del creditore”, a cui si riferisce l’art. 1227, prescinde dall’elemento soggettivo della colpa, mentre si basa sull’oggettivo contrasto del comportamento del creditore con norme positive e di comune prudenza; c) a conferma di ciò, viene il fatto che anche il concetto di “gravità della colpa” non deve essere riferito all’elemento psicologico, ma alla maggiore o minore rilevanza del comportamento negligente o imprudente nella causazione del sinistro e del relativo danno; d) il fatto dell’incapace non può identificare l’ipotesi del caso fortuito perché i rischi insiti nella sua condotta sono pienamente prevedibili; e) la riduzione del risarcimento, per il caso del concorso di colpa dell’incapace, non si pone in contrasto con la norma dell’art. 2046 c.c., il cui ambito di operatività riguarda la esclusione di responsabilità verso i terzi per le conseguenze del comportamento dello stesso incapace, ma non giustifica anche la pretesa risarcitoria nei confronti dei terzi per i danni che lo stesso abbia prodotto a sé. La bontà dell’interpretazione preferita dalla Cassazione nel 1964 fu, in seguito, confermata anche dalla Corte Costituzionale che, con ordinanza del 23 gennaio 1985 n. 14, escluse che contrastasse con il principio di eguaglianza l’art. 1227 nella parte in cui, nei confronti dell’incapace di intendere e volere che con la sua condotta abbia concorso a causare il danno complessivamente da lui subito, impedisce la risarcibilità di quella parte del danno stesso che sia stata causata dal comportamento di esso danneggiato e non ne consenta la risarcibilità, nemmeno in via equitativa e in misura parziale. Il Giudice delle Leggi ha, altresì, aggiunto che la violazione del principio di eguaglianza non sussiste nemmeno sotto il profilo del contrasto della norma impugnata con i principi ricavabili dalla lettura congiunta degli artt. 2046 e 2047 c.c., in quanto questa seconda norma, concernendo l’autore dell’illecito, non può essere assunta come tertium comparationis rispetto all’art. 1227, riguardante la persona offesa. A tale orientamento, come detto, la Cassazione nella odierna sentenza si conforma, aggiungendo – rispetto a questo – che «per la generale portata del principio in questione, la riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta; ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subito dalla vittima proietta su di essi, agiscono per ottenere i danni iure proprio».

XIII. Sebbene non riguardi propriamente l’applicazione dell’art. 2048 c.c., giova in ultimo segnalare la pronuncia di Cassazione 14 luglio 2004 n. 13082, con cui la Cassazione annulla una sentenza della Corte di Appello di Napoli che aveva rigettato il ricorso del proprietario di un immobile, il quale aveva agito in primo e in secondo grado contro un Comune, tra l’altro, per i danni cagionati all’immobile di sua proprietà, locato a favore del Comune stesso ed utilizzato come scuola, senza ottenere l’agognata pronuncia al risarcimento dei danni. Il diniego era stato motivato dalla Corte di appello in ragione del fatto che: «il presupposto della personalità dell’illecito induce a individuare i soggetti passivi dell’azione ex art. 2043 c.c. nei concittadini [dell’attore], padri dei bambini autori materiali dell’usura del negozio-scuola». La Suprema Corte censura tale passaggio della sentenza della corte di merito e lo qualifica errato, osservando in via argomentativa che: «la possibile responsabilità dei genitori degli alunni della scuola ex art. 2048c.c. per i danni arrecati all’edificio scolastico non esclude la responsabilità (quanto meno concorrente) del soggetto che abbia la detenzione (a qualunque titolo) dell’immobile altrui e che è tenuto a conservarlo (per restituirlo al proprietario) con la diligenza del buon padre di famiglia che incombe su ogni debitore ( art. 1176, primo comma, c.c.). Tale responsabilità del detentore (anche se concorrente con quella di altri soggetti) lo rende obbligato verso il proprietario dell’immobile a risarcirlo dei danni che l’immobile abbia subito per effetto di una detenzione senza la dovuta diligenza, L’obbligazione risarcitoria del detentore, pure se solidale con quella di altri responsabili del danno, ha per contenuto l’intero danno subito dal proprietario dell’immobile, per il disposto dell’art. 2055 c.c., applicabile anche nel caso in cui i più autori del danno rispondano per titoli diversi, contrattuale ed aquiliano». La conclusione a cui giunge il Supremo Collegio è nel senso che non può affermarsi che il comune, quale detentore dell’immobile di proprietà dell’attore, non sia legittimato passivo rispetto all’azione risarcitoria proposta dall’attore per i danni che il detto immobile abbia subito durante la detenzione del comune.

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