(in Foro italiano, 2002, I, 2636) di FRANCESCO DI CIOMMO
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite; sentenza 27 giugno 2002, n. 9346; Pres. MARVULLI, Est. PREDEN, P.M. MARTONE (concl. conf.); Parmentola (Avv. IIMPERATI) c. R.A.S. (Avv. SPADAFORA) e Min. pubblica istruzione. Conferma App. Napoli 28 ottobre 1997.
Responsabilità civile – Scuola – Danno cagionato dal minore a se stesso – Responsabilità degli insegnanti – Natura contrattuale (Cod. civ., art. 2048, art. 1218)
Istruzione pubblica – Responsabilità civile – Danno cagionato dal minore a se stesso – Insegnanti – Responsabilità extracontrattuale – Esclusione – Responsabilità contrattuale – Azione di risarcimento del danno – Legittimazione passiva degli insegnanti – Esclusione (Cod. civ., art. 2048, art. 1218; l. 11 luglio 1980 n. 312, nuovo assetto retributivo-funzionale del responsabile civile e militare dello Stato, art. 61)
Nel caso di danno arrecato dall’allievo a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non va ricondotta nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, bensì in quello della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c. (1)
La legittimazione passiva dell’insegnante, ai sensi dell’art. 61 della legge 312/80, è esclusa (in quanto essa spetta al ministero competente) non solo nel caso di azione di risarcimento per danni arrecati, durante l’orario scolastico, da un alunno ad un altro alunno (azione nella quale sia invocata la presunzione di cui all’art. 2048 c.c.), ma anche nell’ipotesi di danni arrecati dall’allievo a se stesso (ipotesi da far valere secondo i principi della responsabile contrattuale ex art. 1218 c.c.). (2)
(1) Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite della Cassazione risolvono un contrasto giurisprudenziale che riguardava anche la corte di legittimità. Il dubbio era rappresentato dall’applicabilità dell’art. 2048 c.c. al caso in cui l’allievo, durante l’orario scolastico, resti pregiudicato da un fatto dannoso non imputabile direttamente ad altri minori sottoposti alla vigilanza degli stessi precettori (c.d. danno del minore a se stesso). L’odierna sentenza, sancendo un principio innovativo, respinge l’orientamento che, basandosi su un’interpretazione piuttosto svincolata dal testo della norma, la applicava al caso in parola. Si accoglie così la diversa soluzione per cui (e qui sta l’importante novità delle pronuncia), nella circostanza descritta, sia la responsabilità della scuola, sia quella degli insegnanti andrebbero ricondotte nell’ambito contrattuale, piuttosto che extracontrattuale (così già DI CIOMMO, Danno «allo» scolaro e responsabilità «quasi oggettiva» della scuola, in Foro it., 1999, I, 1575). Per tutta conseguenza, si delinea l’applicazione del regime probatorio di cui all’art. 1218 c.c., il quale consente ai genitori rappresentanti dell’allievo danneggiato, al pari di quanto accadrebbe nel caso si applicasse l’art. 2048, di agire per il risarcimento verso gli insegnanti, limitandosi a provare che il minore ha subìto il danno mentre era sottoposto alla loro vigilanza.
Per i necessari approfondimenti, si rinvia alla nota di F. DI CIOMMO che segue.
(2) Il principio massimato, nella parte relativa all’applicazione dell’art. 61 della legge 11 luglio 1980, n. 312, anche al caso del danno cagionato dal minore a sé stesso, trova il suo più autorevole precedente nella sentenza delle Sezioni Unite, in data 11 agosto 1997, n. 7454 (id., Rep. 1997, voce Istruzione pubblica n. 55, e, per esteso, in Danno e resp., 1998, 260, con nota di ROSSETTI, in Rass. avv. Stato, 1997, I, 162, con nota di NOVIELLO, e in Resp. civ., 1998, 1074, con nota di SETTESOLDI) dove però la corte – pur ricordando, in un obiter dicutm, l’orientamento della Cassazione per cui l’art. 2048 sarebbe applicabile anche al caso di danno “al” minore – non si esprimeva sulla natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità della scuola e degli insegnanti per tale fatto. Nella pronuncia in rassegna, la Suprema corte conferma il risultato cui era giunta nel precedente citato, precisando però che: 1) l’art. 61 si applica sia in caso di responsabilità contrattuale che extracontrattuale degli insegnanti; 2) in questo secondo ambito va ricondotta la responsabilità per danni che il minore si autoprocura mentre è sotto la vigilanza dei precettori.
Per un’esauriente ed aggiornata ricognizione delle questioni aperte in materia di responsabilità civile della pubblica amministrazione per illeciti commessi da propri dipendenti, v., anche per la dottrina e la giurisprudenza ivi citate, M.P. GIRACCA, Responsabilità civile e pubblica amministrazione: quale spazio per l’art. 2049 c.c.?, nota a Cass. 7 novembre 2000, n. 14484, 12 agosto 2000, n. 10803, e 18 febbraio 2000, n. 1890, in Foro it., 2001, I, 3293.
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Il commento di F. Di Ciommo
La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il
minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art. 2048 c.c.
I. Il contrasto giurisprudenziale. Vicenda giurisprudenziale complessa e annosa quella della disciplina giuridica del danno che il minore si autoprocura durante l’orario scolastico (per una recente e articolata ricostruzione della questione, sia consentito sin d’ora rinviare a F. DI CIOMMO, Danno «allo» scolaro e responsabilità «quasi oggettiva» della scuola, in Foro it., 1999, I, 1575; cui adde B. NARCISO, Danno cagionato dal minore a sé stesso o a terzi e responsabilità della scuola, in Lessico dir. famiglia, Roma, 2000, fasc. 2; V. PANDOLFINI, Sulla responsabilità dei precettori e dell’ente scolastico per il danno cagionato dall’allievo a sé medesimo, in Giur. it., 2000, 507; nonché L. DANIELE, La responsabilità dell’amministrazione scolastica per i danni recati dall’alunno a sé stesso, in Riv. giur. scuola, 2000, 157; V. DI SPIRITO, La responsabilità del personale della scuola per gli infortuni degli alunni, in Lavoro e prev. oggi, 1998, 1934; S. MASALA, Sulla applicabilità della disciplina dell’art. 2048 c.c. (relativa alla responsabilità degli insegnanti per il fatto illecito degli allievi) nel caso in cui l’allievo procuri un danno a sé stesso, in Riv. giur. sarda, 2000, 59).
Soluzione tribolata, ma auspicata e innovativa, quella a cui le Sezioni Unite (dopo essersi pronunciate in maniera del tutto opposta, soltanto cinque anni fa, in un obiter dictum della sentenza 11 agosto 1997, n. 7454, in Foro it., Rep. 1997, voce Istruzione pubblica n. 55, e, per esteso, in Danno e resp., 1998, 260, con nota di M. ROSSETTI, in Rass. avv. Stato, 1997, I, 162, con nota di G. NOVIELLO, e in Resp. civ., 1998, 1074, con nota di R. SETTESOLDI) pervengono con la decisione in rassegna; la quale finalmente – è proprio il caso di dirlo – inaugura un orientamento, basato sulla responsabilità contrattuale della scuola, che fa tesoro delle indicazioni dottrinali in materia (la tesi contrattuale era stata già propugnata in DI CIOMMO, cit., 1577; nonché, Figli, discepoli e discoli in una giurisprudenza «bacchettona»?, in Danno e resp., 2001, 266) e, in definitiva, appare fondato in punto di diritto e convincente in vista del risultato pratico che consente di perseguire.
Correva l’anno 1958 quando la Cassazione per la prima volta si trovò a discutere di applicabilità dell’art. 2048 c.c. al caso dell’allievo che si procura da sé un danno. La sentenza n. 2485 del 10 luglio 1958 (in Foro it., Rep. 1958, voce Responsabilità civile, n. 211) affermò limpidamente che la norma in parola non può operare fuori dall’ipotesi del fatto illecito del minore che procuri danno ad un terzo. Alla stessa conclusione è giunta, in tempi più recenti, la sentenza della Corte d’appello di Napoli, impugnata per cassazione dall’odierno ricorrente e ora confermata dalle Sezioni Unite, le quali risolvono in via definitiva la questione. Tra il primo riferimento citato e quest’ultimo, una copiosa serie di sentenze di merito e di legittimità hanno dato corpo a due filoni giurisprudenziali in aperto contrasto tra loro. Alcune pronunce, infatti, seguono il precedente del 1958 (così App. Firenze, 17 aprile 1964, id., Rep. 1964, voce cit., n. 290, e, per esteso, in Giur. tosc., 1964, 748; Cass. 13 maggio 1995, n. 5268, in Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 135, e per esteso in Nuova giur. civ., 1996, I, 239, con nota di L. ZACCARIA; App. Cagliari, 8 luglio 1998, in Foro it., Rep. 2000, voce cit., n. 260, e in Riv. giur. sarda, 2000, 55, con nota di S. MASALA; Trib. Torino, 7 ottobre 2000, in Guida al dir., 2001, 78), altre invece (e si noti che la stessa terza sezione della Suprema corte tra il maggio e l’agosto del 1995, sentenze n. 5268 e 8390, cit., aderisce prima all’uno, poi all’altro orientamento), invocando asseriti cambiamenti sociali, promuovono un’interpretazione estensiva dell’art. 2048, tale per cui si giunge ad applicare detta norma anche al caso del minore che si autoprocura un danno durante l’orario in cui è affidato agli insegnanti (così App. Milano, 8 giugno 1962, id., …………………………, e in Riv. dir. sport, 1963, 350; Cass. 3 febbraio 1972, n. 260, in Foro it., 1972, I, 3522, con nota di P. GROSSI, e, per esteso, in Giust. civ., 1972, I, 243; Trib. Napoli, 5 dicembre 1989, in Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 102, e, in extenso, in Arch. civ., 1990, 393; Cass.1° agosto 1995, n. 8390, in Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 110; 11 agosto 1997, n. 7454, cit.; 26 giugno 1998, n. 6331, id., I, 1574, con nota già citata di F. DI CIOMMO; Trib. Messina, 28 novembre 2001, id., 2002, I, 602).
II. Le ragioni e i limiti dell’orientamento sconfessato. L’orientamento censurato dalla sentenza in epigrafe negli ultimi anni aveva guadagnato il favore della prevalente giurisprudenza. Una delle pronunce di legittimità più risolute nel sancire l’applicabilità dell’art. 2048 anche al danno che il minore si era cagionato da sé durante l’orario scolastico fu la già citata n. 6331 del 26 giugno 1998. Sebbene il danno al minore fosse stato causato da uno sgambetto di un compagno, considerate le difficoltà che avrebbero incontrato per provare il fatto, i genitori, rappresentanti del danneggiato, avevano pensato bene di azionare, contro il ministero convenuto, la norma in parola sulla base del mero danno subito dal ragazzino durante l’orario scolastico. A differenza, dunque, di quanto affermano le Sezioni Unite nell’odierna sentenza, dal punto di vista puramente giuridico la vicenda processuale su cui si espresse nel 1998 la terza sezione della Suprema Corte riguardava proprio l’applicazione dell’art. 2048 al danno sofferto dal minore (sia per fatto altrui, che per fatto proprio) durante l’orario scolastico.
Nel precedente da ultimo citato, i giudici del Supremo collegio cassarono la sentenza impugnata, in quanto essa aderiva ad un’interpretazione giudicata restrittiva (ma, più correttamente, dovrebbe dirsi: rispettosa del dato testuale) dell’art. 2048 e dunque impediva ai genitori – che, per conto del minore, agivano contro gli insegnanti che avrebbero dovuto impedire il danno da quello patito – di godere del regime probatorio di vantaggio concesso da tale norma. Si ebbe già modo di rilevare su queste colonne, a margine di tale pronuncia, come essa, sebbene motivata da comprensibili e condivisibili istanze garantistiche, in quanto volta ad evitare che i genitori – al fine di ottenere il risarcimento dei danni per conto del figlio – abbiano a fornire la difficile prova della colpa del personale scolastico quando il minore resta danneggiato mentre è affidato all’istituto, mancasse del necessario apparato argomentativo e finisse, dunque, per raggiungere il risultato perseguito attraverso un’applicazione errata dell’art. 2048 (v. DI CIOMMO, Danno «allo» scolaro e responsabilità «quasi oggettiva» della scuola, cit.).
Per dirlo in altro modo. Rispetto al momento storico in cui il principio di cui all’art. 2048 venne formulato, il contesto sociale di riferimento è mutato, in quanto il rapporto tra genitori, figli e scuola è cambiato profondamente. In questa diversa situazione, appare apprezzabile lo sforzo di sollevare i genitori dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 2043, la colpa degli insegnanti quando lo scolaro sia rimasto vittima di un incidente durante l’orario scolastico; sforzo che, tuttavia, va condotto senza prescindere dalla sistematica codicistica e dal diritto positivo. E’ bene, infatti, che a spiegare l’accaduto sia chi gestisce, e dovrebbe effettuare, il servizio di vigilanza sui minori, mentre i genitori dovrebbero limitarsi a dimostrare che il danno è stato sofferto dal minore proprio durante il periodo in cui questi era sotto detta vigilanza; tuttavia, non si può pensare di perseguire questo obiettivo attraverso l’applicazione dell’art. 2048, il quale è animato da un’altra ratio e nasce per agevolare i terzi (ed il minore danneggiato non è certo terzo, né lo possono essere i genitori che agiscono in qualità di suoi rappresentanti) rimasti danneggiati da un fatto del minore che i vigilanti non hanno vietato.
A riprova dell’inadeguatezza dell’art. 2048 a realizzare il risultato auspicato sovviene il (non trascurabile) tenore letterale della norma, secondo il quale, perché scatti la presunzione di responsabilità dei genitori o dei precettori, è necessario che a monte vi sia il fatto illecito del minore; fatto illecito che chiaramente manca in caso di danno che il minore si autoprocura. Sulla necessità del fatto illecito come presupposto ai fini dell’applicazione dell’art. 2048, sia dato rinviare a F. DI CIOMMO, L’illiceità (o antigiuridicità) del fatto del minore (o dell’incapace) come presupposto per l’applicazione dell’art. 2048 (o 2047) c.c., id., 2001, I, 3100, ove, tra l’altro, si segnalava il paradosso per cui, se la giurisprudenza non si fosse attrezzata in modo tale da cambiare radicalmente l’impostazione del problema in esame (così come hanno fatto le Sezioni Unite con l’odierna sentenza), «i genitori, spesso oggettivamente impossibilitati a dimostrare la negligenza dei sorveglianti [si sarebbero dovuti augurare], ai fini processuali, che in fondo al corridoio, attraversato di corsa dal figlio pestifero, ci sia una vetrina da sfondare, così che essi possano agire in forza dell’art. 2048 […], piuttosto che in forza del regime ordinario di cui all’art. 2043».
III. Una soluzione ermeneutica: l’interpretazione adeguatrice dell’art. 2048. Sempre al fine di mantenere fermo il presupposto dell’illiceità del fatto del minore nell’applicazione dell’art. 2048 – ma considerando, in ogni caso, preferibile pervenire ad una sistemazione della questione in ambito contrattuale, piuttosto che extracontrattuale – si era suggerito, su queste colonne, di interpretare l’orientamento che si andava affermando in giurisprudenza (a tenore del quale, giova ripeterlo, l’art. 2048 sarebbe applicabile anche in caso di danno che il minore procura a sé stesso durante l’orario scolastico), nel senso di ritenere che sia dato ai genitori agire contro gli insegnanti dimostrando soltanto il danno patito dal minore, mentre questi ultimi potrebbero liberarsi dalla presunzione di responsabilità, dimostrando di non aver potuto impedire il fatto ovvero provando che il minore non è rimasto vittima di un fatto altrui, bensì di un fatto proprio, o, in alternativa, che il fatto, per un qualsiasi altro motivo, non è qualificabile come illecito (v. DI CIOMMO, Danno «allo» scolaro e responsabilità «quasi oggettiva» della scuola, cit.; per una prima puntuale applicazione di questa tesi, v. Trib. Messina, 28 novembre 2001, cit.).
In tal modo, estendendo l’inversione dell’onere della prova anche all’illiceità del fatto che è causa del danno, si raggiunge ugualmente l’obiettivo perseguito, in quanto i genitori dell’enfant terrible vengono esonerati dal difficile onere probatorio rappresentato dalla ricostruzione del fatto, sicché la norma in esame finisce per risultare più adatta al mutato contesto sociale. A ben vedere, anche l’operazione ermeneutica qui riassunta va oltre la lettera dell’art. 2048, ma senza stravolgerne i presupposti applicativi, in quanto essa, al contrario della tesi che ritiene applicabile la disposizione in esame anche al danno che il minore si autoprocura, invece di trascurare l’importanza dell’illiceità del fatto, consente ai genitori rappresentanti del minore danneggiato di darla per presunta.
IV. La responsabilità contrattuale della scuola. La novità introdotta dalle Sezioni Unite nella odierna sentenza non è di poco conto. Infatti, al fine di tutelare la posizione dei genitori (spesso impossibilitati a dimostrare in giudizio la responsabilità dei vigilanti in relazione a danni patiti dai minori loro affidati) e considerata l’impraticabilità del regime di favore apprestato dall’art. 2048, l’unica strada perseguibile era quella di applicare alla fattispecie la disciplina della responsabilità contrattuale, a tenore della quale i genitori, per agire nei confronti della scuola, devono esclusivamente dimostrare che il minore ha subìto un danno mentre era affidato ai precettori, in quanto è la scuola stessa, in tal caso, per liberarsi dall’obbligo risarcitorio, a dover provare che il danno non è dipeso dall’inadempimento dell’obbligo, cui essa è tenuta, di vigilare affinché che gli alunni non subiscano danni durante l’orario scolastico.
Una volta ammessa l’inadeguatezza dell’art. 2048, il problema vero per la Cassazione consisteva, dunque, nell’affermare, ai fini della soluzione del problema in esame, la natura contrattuale del rapporto tra scuola pubblica e alunno, rientrando questo, dal punto di vista più squisitamente giuspubblicistico, nell’ambito della prestazione di un servizio pubblico del quale il privato utente usufruisce gratuitamente o, a seconda dei casi, mediante il pagamento di una tassa. A ben vedere, tuttavia, il soggetto ammesso a godere di un servizio pubblico, quantomeno in relazione ad ipotesi di responsabilità da questo derivante, deve poter accedere alle garanzie privatistiche messe a disposizione della parte che, in ambito contrattuale, subisce un inadempimento totale o parziale. Consapevole di ciò, nella pronuncia in esame, la Suprema corte afferma apertis verbis che «l’accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione dell’allievo determina[no] l’instaurazione di un vincolo negoziale».
Una volta accertata la natura negoziale del rapporto tra scuola pubblica e allievi, i giudici dovevano affrontare un ulteriore problema rappresentato dalla giustificazione dello specifico obbligo, gravante sulla scuola stessa e di conseguenza sugli insegnanti – e contestato da una parte della dottrina, come appresso si chiarirà –, di vigilare sugli alunni a tutela della loro integrità, e non soltanto a tutela dell’integrità dei terzi. In proposito, avevamo già affermato che «in tale contesto, più corretto dal punto di vista sistematico sarebbe […] far leva su una responsabilità contrattuale della scuola. Tale responsabilità, per quanto riguarda i maestri elementari, trova origine nell’art. 350 del regolamento generale del servizio scolastico, approvato con r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, Per quanto riguarda gli insegnanti di ordine superiore, può ritenersi che essa sussista in virtù della consuetudine o della clausola generale che impone diligenza nell’adempimento dell’obbligo di intrattenersi con i discenti a fini didattici» (DI CIOMMO, Danno «allo» scolaro e responsabilità «quasi oggettiva» della scuola, cit., 1578; ID., Figli, discepoli e discoli in una giurisprudenza «bacchettona»?, cit., 266). Anche la giurisprudenza sembra non avere dubbi a rinvenire in capo alla scuola un obbligo di sorveglianza posto a tutela degli stessi sorvegliati, considerata la loro giovane età. Tra le altre, giova qui segnalare la sentenza del 30 marzo 1999, n. 3074 (id., Rep. 1999, voce cit., n. 250, e per esteso in Dir. ed economia assicuraz., 2000, 632, con nota di D. DE STROBEL), con la quale la Cassazione ha affermato che «l’istituto di istruzione ha il dovere di provvedere alla sorveglianza degli allievi minorenni per tutto il tempo in cui essi gli sono affidati, e quindi fino al subentro, almeno potenziale, dei genitori o di persone da questi incaricate; tale dovere di sorveglianza, pertanto, permane per tutta la durata del servizio scolastico ed è posto a tutela degli alunni anche per i fatti dannosi che questi dovessero subire, in tale periodo, a causa di terzi»
Contraria a tale impostazione appare una parte della dottrina che nega l’esistenza in capo agli insegnanti di un obbligo di sorveglianza volto ad impedire, oltre che danni a terzi causati da minori, anche danni agli stessi scolari (interessante risulta in proposito seguire l’evoluzione nel tempo del pensiero di un autorevole studioso della responsabilità civile: cfr. L. CORSARO, Sulla natura giuridica della responsabilità del precettore, in Riv. dir. comm., 1967, I, 45; e, per riflessioni più recenti, ID., Responsabilità civile. I) Diritto civile, voce dell’Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, 1991, Roma, 19-21; nonchè ID., Responsabilità per fatto altrui, in Digesto civ., Torino, 1998, vol. XVII, 383). Secondo L. ZACCARIA, Sulla responsabilità civile del personale scolastico per i danni sofferti dal minore, in Nuova giur. civ., 1996, I, 242, «il dovere di sorveglianza, connaturato quasi alla qualità di insegnante e di affidatario, implica senza dubbio obblighi positivi di educazione, ma tali obblighi non possono spingere fino ad indentificarsi con il dovere di sorveglianza affinché il minore e l’incapace non abbiano a cagionarsi un danno»; secondo l’autrice citata, l’assunto sarebbe confermato dal fatto che «la giurisprudenza pressoché costante ha sempre qualificato tale dovere di vigilanza non assoluto, ma relativo, dovendosi commisurare all’età e perciò al grado di maturazione dei soggetti sorvegliati [e inoltre, la stessa giurisprudenza] ha riconosciuto in via di principio che l’insegnante può liberarsi da responsabilità, dimostrando che il fatto del minore presenta i caratteri del caso fortuito, di una mera infelicitas facti, ovvero repentinità ed imprevedibilità tali da escludere, in base all’esperienza, la possibilità del maestro di impedirlo». Sennonché, considerazioni di tal fatta non impediscono di rinvenire in capo agli insegnanti l’obbligo di evitare che gli alunni si producano danni durante il periodo nel quale sono sottoposti alla loro vigilanza, bensì inducono soltanto a qualificare quella sussistente in capo ai precettori alla stregua di una obbligazione di mezzi e non – ci mancherebbe che fosse il contrario – di risultato. Ricondotto in questo ambito, il discorso relativo alle modalità di esercizio della vigilanza e alla possibilità per l’insegnante di liberarsi da responsabilità dimostrando il caso fortuito o, comunque, l’impossibilità di impedire l’evento, appare del tutto giustificato, ed anzi necessario al fine di una precisa, ed equilibrata, definizione dell’obbligo contrattuale che la scuola contrae con gli alunni. L’odierna sentenza, anche su questo punto, prende posizione netta, in quanto afferma che: «nell’ambito delle obbligazioni assunte dall’istituto, deve ritenersi sicuramente inclusa quella di vigilare anche sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso». Sull’esistenza di un obbligo di vigilanza degli insegnanti, posto a presidio, tra l’altro, della incolumità degli stessi vigilati, v., ex pluribus, Cass. 3 febbraio 1972, n. 260, cit.; 4 marzo 1977, n. 984, in Foro it., Rep. 1977, voce cit., n. 112 e 113; 18 maggio 1982, Albano, id., Rep. 1983, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 147; 1° agosto 1995, n. 8390, cit.; Trib. Catania, 15 novembre 1990, id., Rep. 1991, voce Responsabilità civile, n. 143, e, in extenso, in Giust. civ., 1991, I, 100; 11 agosto 1997, n. 7454, cit.
A margine e a completamento del discorso sin qui fatto sulla responsabilità degli insegnanti e della scuola, per danno patito dagli allievi, va detto che con questa eventualmente concorre la responsabilità dello stesso danneggiato (nel qual caso si avrà riduzione del quantum da risarcire in ragione del concorso di quest’ultimo) e quella dei genitori per culpa in educando (che non ha titolo contrattuale, ma extracontrattuale e che può essere fatta valere dalla scuola chiamata a risarcire il danno). Non va, infatti, certamente attribuita interamente ai precettori la responsabilità del fatto gravemente illecito del minore che dimostra sua sconsideratezza, immaturità eccezionale rispetto all’età o una grave mancanza di educazione.
V. La responsabilità dell’insegnante e il c.d. contatto sociale. Nel solco aperto dalla giurisprudenza degli ultimi anni, non era difficile prevedere, in tema di responsabilità dell’insegnante, il rischio di fughe giurisprudenziali verso le sponde del c.d. contatto sociale. Il tentativo di scongiurare tale eventualità (v. DI CIOMMO, Figli, discepoli e discoli in una giurisprudenza «bacchettona»?, cit.) per il momento può dirsi fallito, visto che l’odierna sentenza, quando passa rapidamente a trattare della responsabilità personale dell’insegnante, la definisce contrattuale in quanto dipendente dalla violazione dell’obbligo di sorveglianza sui minori sorto in virtù del “contatto sociale” tra alunni e precettore.
L’orientamento a cui le Sezioni Unite dimostrano, sul punto, di aderire è stato inaugurato dalla sentenza 22 gennaio 1999, n. 589 (in Foro it., 1999, 3332, con osservazioni critiche di A. LA NOTTE e F. DI CIOMMO, nonché, ex multis, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di V. CARBONE, in Corriere giur., 1999, 44, con nota di A. DI MAJO, in Resp. civ. e prev., 1999, 661, con nota di M. FORZIATI, in Giust. civ., 1999, I, 1003, con nota di G. GIACALONE, e in Contratti, 1999, 999, con commento di E. GUERINONI), con cui la Cassazione, accogliendo una tesi autorevolmente sostenuta in dottrina (cfr. C. CASTRONOVO, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di Mengoni, I, Milano, 1995, 197; ID., La nuova responsabilità civile, Milano, 1997), ha ricondotto nell’ambito contrattuale la responsabilità del medico ospedaliero per danni causati al paziente. In tale fattispecie, come nel caso dell’insegnante dipendente della scuola, tra danneggiato e danneggiante non vi è un rapporto contrattuale, in quanto sia il medico che il precettore svolgono la propria attività in ossequio al contratto che il primo ha con la struttura sanitaria ed il secondo con l’ente scolastico. Quanto dire che la loro responsabilità verso pazienti e alunni sarebbe, ragionando nell’ottica tradizionale, di natura aquiliana. Tuttavia, l’esigenza di sollevare il danneggiato dall’onere di provare la responsabilità del convenuto ha suggerito di avallare la tesi del contatto sociale, in ragione della quale vien fatto di applicare il regime giuridico dell’inadempimento contrattuale, certamente più vantaggioso per chi agisce ai fini del risarcimento (per una efficace ed aggiornata ricostruzione delle questioni giuridiche riguardanti la responsabilità civile di medico e struttura sanitaria per danni patiti dai pazienti, v. R. BREDA, Il risarcimento dei danni da inefficienza della struttura sanitaria, in G. PONZANELLI (a cura di), La responsabilità civile. Tredici variazioni sul tema, Padova, 2002, 295).
Rinviando, per le perplessità di carattere generale ivi manifestate, al mio Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero (in Foro it., 1999, I, 3333), giova qui segnalare soltanto che, proprio in materia di responsabilità dell’insegnante, e precipuamente in virtù del principio affermato dalla odierna sentenza, l’applicazione della categoria concettuale in parola potrebbe risultare sostanzialmente inutile. Infatti, una volta affermata la responsabilità contrattuale della scuola, pubblica o privata che sia, i genitori del minore danneggiato preferiranno senza dubbio agire, ex art. 1228 c.c., nei confronti dell’ente responsabile per l’inadempimento dovuto a fatto del dipendente, piuttosto che verso quest’ultimo (non solo perché l’art. 1218 c.c. mette a loro disposizione un regime di favore, ma anche per la, almeno presunta, maggiore consistenza patrimoniale dell’ente). Ciò a meno che, ma la circostanza è davvero eccezionale, il danno dipenda da un atteggiamento, anche omissivo, del precettore assolutamente non ricollegabile all’esercizio delle mansioni a lui attribuite. Nel qual caso, piuttosto che muovere alla ricerca di una strada per applicare, anche alla responsabilità personale del precettore, l’art. 1218, tornerà utile l’art. 2048, interpretato così come suggerito supra nel paragrafo III. Perché, in altre parole, affidare a categorie di elaborazione dottrinale soluzioni di problemi che il codice civile consente, sebbene con qualche equilibrismo interpretativo, di affrontare e risolvere in modo soddisfacente?
VI. La responsabilità dell’ente (pubblico o privato) per difetto di organizzazione. Il principio affermato dalla sentenza in epigrafe, ed evidenziato nella massima sub 1, è valido anche per gli enti scolastici, o più latamente culturali, sportivi, e in genere associativi, di natura privata, alla cui vigilanza i minori vengono affidati dai loro genitori per un certo periodo (cfr. G. VIDIRI, Danno al «lupetto» e responsabilità dell’associazione scout, nota a Trib. Roma, 2 ottobre 1997, in Danno e resp., 1998, 182). Infatti, ogni qual volta sia dato rinvenire l’esistenza di un vero e proprio contratto tra minore (rappresentato dai suoi genitori, o altri legittimati) ed ente, tale accordo ha necessariamente ad oggetto anche l’obbligo di tutela del minore stesso (considerata la presunta immaturità di quest’ultimo e dunque il suo bisogno di essere – sebbene, generalmente, con un’intensità inversamente proporzionale rispetto alla sua età – tutelato dagli adulti sotto la cui vigilanza, anche momentanea, è posto), che in molti casi viene in rilievo come prestazione accessoria ed integrativa (si pensi all’associazione finalizzata alla pratica di una disciplina sportiva o artistica, ovvero all’insegnamento di una lingua, ecc.), e in altri come una delle prestazioni principali (è il caso, ad esempio, delle colonie estive, ovvero dei collegi o nelle associazioni nei quali vengono ospitati minori affidati dai genitori che non possono direttamente occuparsi dei figli per una parte della giornata o anche per periodi più lunghi). Talché l’ente risponde anche per il fatto rimproverabile al proprio preposto – quando detto fatto configura un inadempimento dell’obbligo di sorveglianza, ovvero di qualunque altro obbligo a cui la struttura fa fronte tramite i suoi dipendenti – secondo le comuni regole che presidiano il campo della responsabilità contrattuale (da ultimo, v. Cass. 25 maggio 2000, n. 6866, in Foro it., Rep. 2000, voce cit., n. 192; cfr. Cass. 26 aprile 1996, n. 3888, id., Rep. 1996, voce cit., n. 138).
La conclusione così formulata appare in linea con quanto sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si sono recentemente occupate dell’integrazione del contratto, le quali all’unisono evidenziano come i principi codicistici tradizionali – tra gli altri, in particolare, quelli contenuti negli artt. 1175, 1337, 1366, 1375 c.c. – consentano al giudice di rinvenire, in capo alla parte inadempiente rispetto ad una prestazione accessoria, anche non espressamente richiamata nel contratto (nel caso degli insegnanti, si deve parlare di un vero e proprio obbligo accessorio di protezione; cfr., ex multis, C. CASTRONOVO, Obblighi di protezione, voce dell’Enc. giur. Treccani, vol. XXI, Roma, 1990), la relativa responsabilità e dunque l’obbligo di risarcire il danno provocato (sia consentito rinviare ancora, anche per gli opportuni riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, a F. DI CIOMMO, Clausole generali e responsabilità civile dell’intermediario mobiliare, in Foro it., 2000, I, 1161; nonché ID., Abuso di potere del preponente nel rapporto di agenzia, in Corriere giur., 2000, 1029; e Dovere di correttezza in ambito extracontrattuale, in Danno e resp., 2001, 1183).
Attraverso la strada indicata, nell’ultimo lustro si è giunti a riconoscere, ad esempio in capo alla struttura sanitaria, una responsabilità contrattuale nei confronti del paziente, per mancata o insufficiente organizzazione, ogni qual volta il risultato perseguito dalle parti non si realizzi, senza che siano sopravvenuti elementi di disturbo imprevedibili o inevitabili, e sempre che, nel caso di specie, la prestazione non sia qualificabile come in sé rischiosa (tra gli studi più recenti in proposito, cfr. BREDA, cit.; R. SIMONE, La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata, in corso di pubblicazione in Danno e resp.; F. CHABAS, La responsabilità delle strutture sanitarie per difetto di organizzazione. Studio di diritto privato francese, in Resp. civ. prev., 2001, 13; G. IUDICA, Danno alla persona per inefficienza della struttura sanitaria, id., 2001, 7; M. GORGONI, L’incidenza delle disfunzioni della struttura ospedaliera sulla responsabilità “sanitaria”, id., 2000, 956; ID., Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica, id., 1999, 1007; E. QUADRI, La responsabilità medica tra obbligazioni di mezzi e risultato, in Danno e resp., 1999, 1167). Ciò consente al danneggiato di agire direttamente in via contrattuale nei confronti del soggetto che si assume avere una maggiore solvibilità (e che gli studiosi di law & economics definiscono “tasca profonda”) ed inoltre fa gravare il rischio, rappresentato dal verificarsi del sinistro, su chi può meglio gestirlo. Individuare in capo alla struttura una responsabilità diretta nel caso in cui sia possibile immaginare un difetto organizzativo della stessa (che può, tra l’altro, tradursi in un fatto del singolo dipendente o nel cattivo funzionamento di un macchinario) vuol dire incoraggiare (o costringere) questa ad investire in prevenzione e, dunque, a potenziare la sicurezza della propria attività, ma anche a dotarsi dell’opportuna copertura assicurativa. Attraverso tali leve l’ente riuscirà, anche in ragione delle sue possibilità finanziarie, a ridurre e, nella parte che resta, ad internalizzare, il rischio. E’ vero che, con tutta probabilità, in tali circostanze i costi del servizio subiranno delle variazioni in aumento; nondimeno, appare preferibile spalmare il rischio su tutti gli utenti, con ciò polverizzandone il valore in relazione alla singola prestazione, piuttosto che lasciarlo aleggiare interamente su ogni cliente dell’ente, con la certezza che, prima o poi, l’evento dannoso colpirà il malcapitato. E questo anche perché – ma non è dato qui svolgere un approfondimento del discorso in questo senso – il singolo utente è portato normalmente a sottostimare il valore del rischio (e quindi a non organizzarsi in modo da prevenirlo o assicurarlo) – ovvero, in casi rari, a sovrastimarlo (il che produce comunque esternalità negative e, in definitiva, una inefficiente allocazione delle risorse) –, mentre la struttura (sanitaria, scolastica, ricreativa, associativa e quant’altro) sarà in grado di conoscere alla perfezione l’incidenza statistica dello stesso nell’esercizio della propria attività (per gli opportuni approfondimenti in tema di prevenzione, gestione ed internalizzazione del rischio, v. U. MATTEI – P.G. MONATERI – R. PARDOLESI – T. ULEN, Il mercato delle regole, Bologna, 1999, 379 – 417; cfr. anche P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; C. ROSSELLO, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra diligenza ed efficienza, Padova, 1990; G. PONZANELLI, La responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna, 1992; U. IZZO, Sangue infetto e responsabilità civile: responsabilità, rischio e prevenzione, in Danno e resp., 2000, 229 e 933; G. CLERICO, Attività economica e rischio di danno. Come la struttura del capitale e la priorità di rivalsa sul capitale sociale influenzano la precauzione dell’impresa, in Riv. critica dir. privato, 2000, 71).
Le Sezioni Unite, nella sentenza in rassegna, sembrano implicitamente far tesoro delle considerazioni ora riassunte (rispetto alle quali piace notare come del tutto coerente risulta l’art. 61 della legge 312/80, che impone la sostituzione processuale dell’insegnante sospettato di cattiva vigilanza con quella del ministero competente, facendo su questo ricadere l’eventuale obbligazione risarcitoria, a tutto vantaggio del danneggiato), nonché del viatico rappresentato dall’orientamento relativo alla responsabilità civile della struttura sanitaria per danni patiti dai pazienti. Tutto ciò consente di evidenziare, in materia, una convergenza che sembra destinata ad avere, nel prossimo futuro, significative ricadute anche in ambiti diversi da quelli qui accennati (giova a questo proposito rileggere una, ormai risalente, proposta di direttiva comunitaria che, animata dai principi di cui appena sopra, imponeva al prestatore di servizi, in caso di danno ad un cliente, di dimostrare la propria mancanza di colpa, con ciò introducendo, in capo al prestatore, un regime di responsabilità quantomeno aggravata; tra gli altri, cfr. F.D. BUSNELLI – F. GIARDINA – G. PONZANELLI, La responsabilità del prestatore di servizi nella proposta di direttiva comunitaria del 9 novembre 1990 e nel diritto italiano, in Quadrimestre, 1992, 426; e L. PANZANI, Responsabilità del prestatore di servizi e tutela del consumatore nella proposta di direttiva Cee, in Impresa, 1992, 1717).
VII. Ridimensionamento applicativo dell’art. 2048 e ridefinizione dei confini nell’area della responsabilità civile. La riflessione sin qui condotta merita una chiosa. Una volta ammesso che tra scuola pubblica e alunni esiste un vero e proprio contratto (per le private, già prima dell’odierna pronuncia, non era lecito dubitare), e che questo ha ad oggetto, tra l’altro, la salvaguardia della incolumità dei discenti (affermazione che, considerata l’autorevolezza dell’organo giudicante, è importante anche per gli istituti privati), sembra facile prevedere che, di qui in avanti, i genitori rappresentanti di minori danneggiati (da fatto proprio, o altrui: e qui il principio affermato dalla Suprema corte va forse inevitabilmente al di là dell’intenzione dei giudici, che hanno sì promosso la riconduzione nell’ambito contrattuale del danno che il minore si autoprocura, confermando, però, la natura aquiliana della responsabilità dei precettori quando il danno sia imputabile ad un altro vigilato; essi, in altre parole, non sembra si siano accorti che, ammessa l’esistenza dell’obbligo di protezione in capo agli insegnanti ed alla scuola, non si vede cosa potrebbe impedire ai genitori di agire ai sensi dell’art. 1218 anche in questo secondo caso) agiranno, a titolo contrattuale, direttamente contro la scuola (e, dunque, non contro l’insegnante) – ovvero qualunque altro ente avente le caratteristiche enunciate nel paragrafo precedente – per inadempimento dell’obbligo di protezione; o, eventualmente, in applicazione della categoria del contatto sociale (a meno che su questo punto la Cassazione non torni sui suoi passi), anche contro l’insegnante, ma sempre ai sensi dell’art. 1218 (nel qual caso, quando si tratti di dipendente pubblico, ai sensi dell’art. 61, l. 312/80, comunque, legittimato passivo sarà soltanto il ministero competente e, dunque, non l’insegnante; sul punto, v., da ultimo, M.P. GIRACCA, Responsabilità civile e pubblica amministrazione: quale spazio per l’art. 2049 c.c.?, in Foro it., 2001, I, 3293).
Quanto appena rilevato tiene, tra l’altro, conto del fatto che, nella vicenda in esame, e dunque per quanto riguarda l’obbligo di protezione che la scuola assume nei confronti dell’allievo, non vi è ragione di ritenere che il danneggiato possa preferire l’azione di tipo extracontrattuale, piuttosto che contrattuale, al fine di non subire, ai sensi dell’art. 1225 c.c., una limitazione del risarcimento da conseguire in ragione della prevedibilità del danno: non foss’altro perché la scuola, essendo tenuta a tutelare l’incolumità degli allievi che le vengono affidati, ha motivo di prevedere che, in caso di suo inadempimento, i danni al minore potrebbero essere anche, in casi particolarmente sfortunati, di gravissima entità.
La sensazione, dunque, è che il ricorso giudiziale all’art. 2048, per illeciti patiti (anche a causa di terzi) da minori durante il periodo di loro affidamento ad enti culturali, sportivi o sociali, diminuirà notevolmente. Infatti, anche ammettendo che nel formulare l’istanza risarcitoria, l’attore scelga di agire cumulativamente – contro scuola e precettore, a titolo contrattuale ed extracontrattuale, recuperando così l’art. 2048 – non vi è dubbio che la norma in parola sia destinata a perdere (ma ciò, evidentemente, come già detto, non vale in relazione alla responsabilità dei genitori per il fatto illecito posto in essere dai figli; ovvero quando ad agire per il risarcimento sia un terzo) il ruolo centrale che essa ha avuto negli scorsi decenni nel panorama giurisprudenziale italiano. Anche questo è un segno dei tempi: mentre, da una parte, la responsabilità extracontrattuale conquista lidi che sino a pochi anni fa le erano preclusi (un esempio su tutti: l’area degli interessi legittimi), dall’altra, il regime giuridico della responsabilità contrattuale tende, via via, a guadagnare terreno in ambiti tradizionalmente coperti dalla disciplina dell’illecito aquiliano (per una recentissima panoramica su alcune delle problematiche più interessanti della “nuova” responsabilità civile, v. G. PONZANELLI, La responsabilità civile, cit.). In definitiva, si può dunque osservare che, dato appena pochi anni fa per morto, il contratto mostra invece una prepotente vitalità, sfruttando in senso (si direbbe) imperialistico la circostanza, oggi più che mai inoppugnabile nel nostro ordinamento, per cui il rapporto tra i due regimi di responsabilità civile attualmente è davvero questione di confini (mobili).