(in Contratti, 2000, 1111) di FRANCESCO DI CIOMMO
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 14 luglio 2000, n. 9321; Pres. ALTIERI, Est. SALMÈ, P.M. MACCARONE (concl. diff.); Seni (Avv. SERRA) c. Credit Suisse First Boston (Avv. CECCHETTI, GAMMA). Cassa App. Milano 15 luglio 1997.

Contratto – Banca – Apertura di credito – A tempo determinato – Recesso per giusta causa – Causa tipizzata dalle parti – Esercizio arbitrario – Buona fede – Legittimità – Esclusione (Cod. civ., art 1845, 1375)

Nell’ambito di un contratto di apertura di credito a tempo determinato, la banca, pur in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti, non può recedere con modalità del tutto impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa del cliente che, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto.

___________________

Commento di F. Di Ciommo

Il recesso dal contratto di apertura di credito e l’abuso del diritto.

I. Il problema al vaglio della Suprema corte. La sentenza in epigrafe affronta un tema – quello dell’abuso del diritto di recesso nel rapporto di apertura di credito – con il quale la dottrina e la giurisprudenza, non solo in Italia , hanno avuto, soprattutto negli ultimi anni, più volte modo di confrontarsi .
Prima di verificare la bontà delle censure che, accogliendo il ricorso, la Suprema corte muove alla decisione impugnata, necessita evidenziare come l’art. 1845 c.c., nel disciplinare il recesso dal contratto di apertura di credito, distingua il rapporto a tempo indeterminato da quello a termine . In particolare, mentre in relazione al primo tipo è espressamente prevista la facoltà per ciascun contraente di recedere in ogni momento, con il solo obbligo di darne preavviso alla controparte (art. 1845, 3° comma); in riferimento al contratto a tempo determinato, la norma citata, al 1° comma, vieta alla banca di recedere prima della scadenza in assenza di giusta causa, salvo patto contrario .
Nella fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici capitolini, la convenzione stipulata da banca e cliente, annessa ad un contratto a tempo determinato, prevedeva alcune circostanze che le parti anticipatamente qualificavano «giusta causa di recesso» . Proprio facendo leva su tale previsione – e reclamando la sussistenza della circostanza consistente nella menzognera dichiarazione del cliente di non essere socio, al momento della conclusione del contratto, di società di persone –, l’istituto di credito aveva esercitato il diritto di recesso (seppure erroneamente esprimendosi in termini di risoluzione) dal contratto in parola.
Nei due gradi di merito, i giudici milanesi non accoglievano la domanda del cliente volta a contestare che fosse sufficiente la mera concretizzazione della circostanza convenzionalmente prevista per integrare la giusta causa richiesta dall’art. 1845.
La Cassazione, al contrario, partendo dal presupposto che le parti non avevano inteso escludere la necessità di una giusta causa, nell’odierna pronuncia afferma la necessità pratica di un più ampio sindacato sulla correttezza dell’esercizio del diritto di recesso . Tale sindacato, secondo la corte di legittimità, piuttosto che fermarsi a verificare la concreta ricorrenza della circostanza pattiziamente prevista, deve avere ad oggetto il comportamento complessivo della banca, al fine di accertare che questa, nel recedere, si sia comportata con la buona fede che il codice impone alle parti nell’esecuzione del contratto e non abbia, dunque, abusato del suo diritto potestativo.
La conclusione riassunta è ineccepibile. Più complessa si sarebbe presentata la questione nel caso in cui il contratto fosse stato a tempo indeterminato, ovvero nel caso in cui le parti inequivocabilmente avessero manifestato la volontà di prescindere dalla sussistenza della giusta causa. Su queste due ipotesi – anche in virtù della considerazione per cui nella prassi è di gran lunga più utilizzata l’apertura di credito a tempo indeterminato –, conviene si concentri l’attenzione dell’interprete.

II. Tra «giusta causa» di recesso e «buona fede» oggettiva. Nella sentenza n. 4538 del 21 maggio 1997 , la Cassazione aveva affermato, andando ben al di là del principio espresso nella pronuncia in rassegna, che, anche quando le parti abbiano manifestato la volontà di escludere la necessità di una giusta causa, ovvero nel caso di contratto a tempo indeterminato, rispetto al quale – come detto – la giusta causa non è richiesta, l’esercizio del diritto di recesso da parte della banca non è insindacabile , giacché deve pur sempre rispettarsi il fondamentale ed inderogabile principio secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, ai sensi dell’art. 1375 c.c. Ciò in quanto – come rilevato da attenta dottrina – la buona fede interviene nell’esecuzione del rapporto contrattuale limitando il contenuto del diritto validamente sorto ; di modo che, qualora il recesso venga esercitato al di là di tale limite, e dunque in maniera abusiva , il cliente danneggiato può agire con la exceptio doli per negare la restituzione immediata del credito utilizzato, oltre che con l’azione di risarcimento dei danni .
In quest’ottica, la buona fede oggettiva (avente, per i più, lo stesso contenuto e la medesima funzione della clausola di correttezza) assurge a rango di fonte integrativa dei contenuti contrattuali, opzione – tra le diverse prospettate dalla dottrina che si è interrogata sul valore e l’efficacia delle c.d. clausole generali – che la Cassazione, negli ultimi anni, ha in più occasioni dimostrato di apprezzare e condividere , anche al fine di garantirsi un più incisivo potere di sindacato sul comportamento tenuto dalle parti nell’ambito di un rapporto contrattuale o precontrattuale .
La pronuncia del 1997 segna l’apice di un’evoluzione giurisprudenziale che, anche in relazione ad altri settori dell’ordinamento e ad altre problematiche , si sta da tempo muovendo nel senso di scoraggiare e sanzionare l’abuso del diritto, facendo leva sulle clausole generali, ed in particolare sulla buona fede oggettiva . L’insegnamento dei giudici di legittimità è stato di recente seguito dal Tribunale di Foggia nella sentenza del 9 aprile 1998 , che tuttavia nelle conclusioni tradisce l’impianto, garantista per il cliente, che caratterizza la motivazione .
L’orientamento in parola è stato accolto con favore dalla migliore dottrina, la quale ha altresì rilevato come, alla luce di tale risultato ermeneutico, la distinzione tra recesso per giusta causa e recesso ad nutum appaia, oramai, considerata la base fattuale unitaria delle due figure , soltanto di ordine «processuale», ed attenga esclusivamente alla distribuzione dell’onere della prova ; salvo, d’altro canto, avvertire che la mancanza di giusta causa può produrre conseguenze che non sempre si verificano nel caso di contrarietà a buona fede, in quanto tale mancanza a volte ostacola l’efficacia stessa del recesso, oltre che figurare come presupposto per l’azione di risarcimento dei danni .
Pur fondamentalmente condividendo i risultati cui è giunta la dottrina ora citata, sembra utile provare a segnalare un’ulteriore differenza, questa volta «sostanziale», tra la giusta causa che deve suffragare il recesso quando il contratto di apertura del credito sia a tempo determinato, e le parti non la abbiano pattiziamente esclusa, e la buona fede che deve caratterizzare l’operato della banca che eserciti tanto il diritto di recesso ad nutum, quanto (e da qui prende le mosse l’osservazione che si va ad esplicare) il diritto di recesso motivato. L’obiettivo – dalle ricadute non solo teoriche – è ribadire l’autonomia funzionale delle due clausole, così da evitare di cedere alla facile tentazione di credere la giusta causa oramai assorbita nella buona fede .
Per avviare la riflessione, necessita evidenziare come possa accadere che la banca, pur avendo una valida causa di recesso, eserciti in modo «brusque et inopiné» il proprio diritto potestativo, così danneggiando la controparte ingiustamente, id est con un atteggiamento contrario a buona fede . Anche potendo contare su una valida causa, infatti, l’istituto di credito, al fine di rispettare l’obbligo di comportarsi correttamente nell’esecuzione del contratto, deve agire in modo da salvaguardare, per quanto possibile, gli interessi del cliente; il che dimostra come le clausole in parola abbiano contenuti diversi: più ampio e sfumato quello della buona fede, più definito quello della giusta causa . Ancora non è chiaro, però, se tra le due possa esserci un rapporto di continenza.
Tale dubbio va sciolto rilevando che, alla stregua del principio di buona fede, la banca non è tenuta ad avere una valida ragione per recedere, bensì esclusivamente ad attivarsi per non ledere ingiustificatamente gli interessi della controparte . Ciò significa che, quando sia previsto il diritto di recedere ad nutum, l’eventuale sindacato del giudice non potrà fermarsi a constatare la mancanza di giusta causa per giudicare scorretto il comportamento della banca recedente, in quanto quest’ultimo andrà valutato nel suo complesso. Ragion per cui, la banca che non dovesse riuscire a dimostrare di avere «validi» motivi per recedere (id est tali da poter essere considerati giusta causa) , e tuttavia provasse di aver agito con tutte le cautele necessarie per evitare danni ingenti al cliente, non potrebbe essere ritenuta responsabile per comportamento contrario all’art. 1375 . Tali cautele possono consistere, ad esempio, nella concessione di tempi più lunghi di quelli consueti per la restituzione delle somme utilizzate, ovvero nella comunicazione anticipata del preavviso di recesso che consenta al cliente di procurarsi per tempo aperture di credito da parte di altri operatori .
Pervenendo alla conclusione prospettata, non si vuole negare che, nell’economia della complessa valutazione del giudice, relativa al comportamento della parte recedente, un peso rilevante vada riconosciuto ai motivi che l’hanno indotta a rompere il rapporto. Infatti, quanto più questi motivi saranno evidenti e conoscibili, tanto meno la banca dovrà preoccuparsi di rendere il recesso indolore per il cliente, atteso che in tali circostanze quest’ultimo non potrà vantare un legittimo affidamento da preservare. E d’altro canto, qualora il cliente riesca a dimostrare, unitamente alla carenza di validi motivi, il precipuo intento della banca di arrecargli un danno, l’atteggiamento formalmente collaborativo da parte della stessa non sarebbe sufficiente ad escludere l’abusività del recesso.

III. Autonomia negoziale ed abuso del diritto. Soltanto attraverso la ricostruzione proposta sembra possibile conciliare le sempre più avvertite esigenze di socializzazione e moralizzazione del diritto con il principio di autonomia negoziale, in virtù del quale il codice consente alle parti di un rapporto di apertura di credito a tempo determinato di attribuire alla banca il recesso ad nutum . Ritenendo, infatti, che, attesa la necessità di contrastare l’eventuale abuso del diritto della banca, la differenza tra recesso per giusta causa e recesso ad nutum si riduca ad avere soltanto carattere processuale, si incorre nella facile obiezione di chi rilevi che attraverso lo strumento ermeneutico non si può superare il dettato positivo, il quale nella fattispecie distingue, con aspirazioni che sembrano andare al di là del mero rilievo probatorio, il contratto di apertura di credito a tempo indeterminato da quello a tempo determinato, nonché le due diverse modalità di recesso .
In altre parole, alle parti di un contratto quale quello in rassegna va, senza dubbio, riconosciuta – se non si vuole ignorare l’inequivocabile dato codicistico, che pure meriterebbe ben più di una censura – la facoltà di pattuire che la banca possa recedere anche in assenza di giusta causa ; con l’avvertenza che tale previsione, pur consentendo alla recedente di rompere il rapporto contrattuale senza una valida motivazione, non permette alla stessa di esercitare il suo diritto senza tenere presente l’aspettativa ragionevolmente maturata dalla controparte alla prosecuzione del rapporto e senza attrezzarsi, ad esempio, perché il cliente possa per tempo ricorrere a strategie alternative, in modo da evitare danni economici rilevanti.
La conclusione cui si è giunti pare avvalorata anche da due ulteriori considerazioni. Se, come sostenuto da alcuni autori, per abuso del diritto bisogna intendere l’esercizio dello stesso contrario allo scopo per cui l’ordinamento lo ha attribuito , allora l’esercizio del diritto di recesso ad nutum privo di una giusta causa non può essere considerato abusivo ; mentre è abusivo l’atteggiamento del recedente che nel complesso si riveli non conciliabile con il principio di solidarietà che permea l’intero ordinamento giuridico . Ciò in quanto, posto che normalmente il contenuto dei diritti patrimoniali non si estende sino a coprire spazi in cui l’esercizio degli stessi è immotivatamente dannoso per altri – il che è dimostrato, tra l’altro , dal combinato disposto degli artt. 1322 e 1324 c.c., che sottopone tutti gli atti privati al vaglio della meritevolezza degli interessi –, tale discorso non vale per il diritto di recesso ad nutum che, al contrario, per definizione consente al titolare, nei limiti del rispetto del principio di buona fede, di incidere la sfera giuridica altrui .
Il convincimento prospettato non muta anche a voler accedere ad una diversa nozione di abuso del diritto, a tenore della quale ciò che «unicamente rileva, ai fini di una corretta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del principio di buona fede, è l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio – meritevole di tutela – per il creditore» . Non sembra infatti possibile, in quest’ottica, ignorare il vantaggio economico che procura alla banca la consapevolezza di poter esercitare ad nutum il recesso nei confronti dei suoi clienti. Che poi il recesso, nel singolo caso di specie, non trovi adeguate e specifiche motivazioni, risulta irrilevante se solo si considera che l’esercizio di tale diritto potestativo altro non è che l’estrinsecazione della posizione contrattuale di favore che il cliente ha convenzionalmente riconosciuto alla banca . Una volta ammesso che l’acquisizione di tale posizione non sia economicamente indifferente per la banca, in quanto le procura vantaggi, non si vede come l’utilizzazione della stessa possa esserlo, con ciò integrando un abuso del diritto.

IV. L’abuso del diritto nell’ordinamento italiano. La corte dichiara di utilizzare la giusta causa come «antidoto all’abuso del diritto», parafrasando e seguendo la migliore dottrina che si è cimentata nell’approfondimento di tale complessa e discussa figura.
Nel nostro ordinamento manca una norma che in termini generali sanzioni espressamente, o semplicemente preveda e definisca, l’abuso del diritto. Tale scelta del legislatore del 1942 – suggerita dai più autorevoli studiosi dell’epoca – non va, tuttavia, enfatizzata. Ciò in quanto la commissione parlamentare che si occupava del progetto del codice civile, dopo aver deciso di non formulare una norma di tal fatta , nondimeno suggeriva il rinvio a singoli istituti, quasi nel tentativo di recuperare per altra strada il generale divieto di abuso del diritto . La problematica non era, dunque, estranea alla sensibilità dei giuristi italiani di inizio secolo e, se il principio non fece ingresso in pompa magna nel codice civile vigente, fu solo perché più forte si avvertì l’esigenza di evitare che, attraverso una simile clausola generale, i giudici potessero disporre di eccessiva discrezionalità nel sindacare l’esercizio dei diritti privati .
Superata (in verità, mai del tutto) tale preoccupazione, attenta dottrina, già da decenni, evidenzia come l’esercizio dell’autonomia negoziale, sancito e garantito a livello codicistico dall’art. 1322, non possa sottrarsi ad una valutazione in termini di socialità . In altre parole, i privati sono liberi di riempire dei contenuti che preferiscono il negozio che pongono in essere, ma devono farlo nel rispetto dei «limiti imposti dalla legge». Principio dal quale si ricava che, ove, anche indipendentemente da una previsione espressa, negli interstizi del dettato normativo, ovvero più in generale nella valutazione di un istituto o di un intero sistema di regole, l’interprete rilevi l’esistenza di detti limiti, il contenuto del contratto sottoposto al sindacato del giudice deve essere integrato, ovvero manipolato , in modo da rendere compatibile l’esercizio dell’autonomia dei privati con i limiti in parola . Ciò, vieppiù, quando questi ultimi trovano affermazione a livello costituzionale; fenomeno che è proprio, sia del principio di solidarietà tra privati, sia di quello di socialità del diritto, entrambi ricavabili dall’art. 2 della carta fondamentale .
Alla luce di quanto sin qui detto, e dunque dei valori che permeano il moderno diritto civile italiano, appare intrinsecamente falso il brocardo qui suo iure utitur neminem laedit, in quanto chi abusa del suo diritto facendone un uso non conforme alla legge, o perseguendo fini proibiti, ovvero futili, e inutilmente nocivi per gli altri consociati , deve risarcire il danno che ha provocato e subisce gli altri rimedi che l’ordinamento rende, di volta in volta, esperibili .

V. Cenni comparatistici. E’ di tutta evidenza l’ampio risalto dato al concetto di abuso del diritto nei diversi settori dell’ordinamento italiano investiti dalla ricca legislazione comunitaria degli ultimi anni in tema di tutela dei consumatori, del mercato ed in generale di tutti i soggetti in posizione di debolezza contrattuale. Evitando di ripetere elencazioni note, pare il caso di far riferimento in questa sede esclusivamente all’ultimo di tali provvedimenti. La direttiva 2000/35/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, datata 29 giugno 2000, «relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», ponendosi nel solco della tradizione sopra accennata, al considerando n. 19, si propone di «proibire l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore» e poi individua alcune ipotesi in cui si paleserebbe tale abuso.
In verità, una certa attenzione nei confronti del concetto in parola traspare, direttamente o indirettamente, da quasi tutte le normative nazionali europee.
Nel BGB tedesco, il § 226 reca la regola per cui «l’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri». Tale paragrafo viene dalla giurisprudenza integrato con il § 826, che riguarda l’esercizio delle libertà e dei diritti c.d. definiti, e con il § 242, ai sensi del quale il debitore è obbligato ad effettuare la prestazione come lo esigono la lealtà e la fiducia reciproca in corrispondenza degli usi socialmente ammessi. Di recente, alcuni autori hanno osservato che in Germania la figura dell’abuso del diritto (Rechtsmissbrauch) da tempo non viene più messa in relazione con il suo referente normativo naturale (§ 226, BGB), bensì – dopo un transitorio momento, nel quale aveva assunto una certa importanza il ruolo del «buon costume» (§ 826, BGB) – con la clausola di buona fede oggettiva (§ 242, BGB) .
Sempre nell’ordinamento tedesco, attenzione merita la figura del Verwikung, in virtù del quale è considerato illecito l’esercizio del diritto compiuto da chi precedentemente aveva suscitato nei terzi affidamento circa la non utilizzazione dello stesso.
L’art. 2 del codice civile svizzero sancisce una regola particolarmente felice perché collega direttamente il concetto di abuso del diritto alla violazione del principio di buona fede. Ai sensi della disposizione da ultimo citata, si deve agire in buona fede nell’esercizio dei diritti come nell’adempimento dei propri obblighi ed «il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge»
Quanto detto per il codice svizzero vale anche per il codice civile greco e per quello turco. L’art. 281 del codice ellenico, infatti, prevede che: «L’esercizio del diritti è proibito se eccede manifestamente i limiti prescritti sia dalla buona fede e dai buoni costumi, sia dallo scopo sociale ed economico di questi stessi diritti» ; mentre il codice ottomano, all’art. 2, dispone: «Ciascuno è tenuto, nell’esercizio dei suoi diritti e nell’esecuzione delle sue obbligazioni, al rispetto della regola della buona fede. L’abuso di un diritto che rechi pregiudizio ai terzi non è protetto dalla legge.».
Anche nel nuovo codice civile olandese del 1990 vi è più di un indizio dell’intenzione del legislatore di scoraggiare l’abuso del diritto. Ciò in quanto vengono positivamente contemplati come contrari al diritto: l’intenzione esclusiva di nuocere, nonché l’esercizio del potere finalizzato ad uno scopo diverso da quello per cui il potere è attribuito ovvero posto in essere in circostanze caratterizzate dalla sproporzione degli interessi in conflitto (libro III, art. 13, comma 2°). In più, tra le fonti di responsabilità, oltre alla lesione di un diritto o alla violazione di un obbligo, viene contemplata «la trasgressione di regole non scritte concernenti la correttezza nei comportamenti sociali».
Il Título Preliminar del código civil spagnolo – così come modificato dal decreto n. 1836 del 31 maggio 1974, che allo stesso Titulo ha dato anche forza di legge – all’art. 7 dispone che i diritti devono essere esercitati in buona fede e che la legge non consente «el abuso del derecho o el ejercicio antisocial del mismo» .
Nell’ordinamento francese (ad inizio secolo furono proprio i francesi a teorizzare in termini moderni il divieto di abuso del diritto) manca una norma che, alla stregua delle disposizioni sin qui richiamate, disciplini in termini generali l’abuso. Tuttavia, paradossalmente, al concetto di abuso del diritto ricorre espressamente molto più spesso la giurisprudenza transalpina – rifacendosi all’art. 1134 del code civil, il quale impone alle parti del contratto di agire in buona fede – che non quella degli ordinamenti che hanno codificato il divieto .
Assai diffusa, tra gli studiosi europei, è l’idea che di abuso del diritto non si occupino gli operatori di common law. Tale percezione negli scorsi decenni è stata, con tutta probabilità, facilitata dall’osservazione, in se’ incontestabile, per cui il diritto di matrice anglosassone ripudia ogni concettualizzazione. Tuttavia, anche solo sfogliando i manuali più recenti dedicati alla Law of Contracts – nei quali i paragrafi dedicati all’abuse of rights dimostrano una sensibilità ed una consapevolezza dai più inaspettata –, al civilista vien fatto di chiedersi se non sia il caso di rivedere le proprie convinzioni in proposito . Del resto, alcune figure tipiche del diritto anglo-americano, a ben vedere, da sempre sono basate sull’implicito divieto di abuso del diritto. Tra i vari esempi possibili, si pensi al tort of interference che si fonda proprio sull’idea che il privato non possa abusare della sua libertà negoziale per ledere interessi economici altrui derivanti da un contratto . Sulla questione specifica dei limiti imposti all’autonomia privata, la dottrina nordamericana, seguita dalla giurisprudenza (e a tratti da questa anticipata ), sembra, addirittura più vivace di quella europea .
Gli studiosi di common law che si sono occupati di abuse of rights hanno rilevato come il concetto in parola tendenzialmente si sovrapponga alla good faith codificata nello UCC e definita nella § 205 del Second Restatement . Parte della dottrina ha, tuttavia, evidenziato come, mentre nell’ambito di rapporti contrattuali la clausola di buona fede sembra avere una portata tale da comprendere anche il divieto di abuso, fuori dalla contractual relationship quest’ultimo dimostri di poter coprire spazi e situazioni ulteriori . Tale osservazione risulterà preziosa nella lettura del prossimo paragrafo.

VI. L’abuso del diritto in ambito aquiliano: la terra promessa. Riflettendo attorno ad un futuro, ipotetico, codice europeo è stato suggerito di introdurre una disposizione generale sull’esercizio del diritto che contempli anche il divieto di abuso . Non sembra, dunque, fuori luogo in questa sede chiedersi, alla luce della riflessione condotta, se di una tale previsione ci sia davvero bisogno nell’ordinamento italiano.
A ben vedere, in materia contrattuale, laddove ope codicis esplica i suoi effetti la clausola di buona fede oggettiva, non si scorgono possibili spazi operativi per il divieto di abuso del diritto, in quanto l’aria coperta dallo stesso sembra coincidere con quella propria della clausola di correttezza .
Laddove, invece, un principio generale quale quello in parola, volto a disciplinare l’esercizio dei diritti, in modo da renderlo compatibile con l’esigenza di solidarietà tra privati, fosse espressamente reso operativo in ambito extracontrattuale (in cui tradizionalmente mancano affermazioni inequivocabili della regola di correttezza e del divieto di atti emulativi) i risultati a livello sistematico sarebbero certamente rilevanti . Ciò in quanto – come è stato autorevolmente evidenziato, pur senza scalfire il presupposto della relazionalità – di fronte a ipotesi sempre più complesse di danno extracontrattuale, non immediatamente decifrabile sotto il profilo dell’ingiustizia, il giudice, proprio in virtù dell’applicazione del principio de quo, non può più trincerarsi dietro il «logoro ed elusivo brocardo» qui iure suo utitur neminem laedit, ma deve affrontare una delicata opera di bilanciamento di interessi contrapposti al fine di verificare se il comportamento, formalmente iure, del danneggiante sia sostanzialmente «non iure, oltre che contra ius, e quindi fonte di danno ingiusto» .
Attraverso l’ampia utilizzazione del concetto di abuso del diritto nel campo della responsabilità aquiliana, in altri termini, sembra possibile completare e legittimare definitivamente la parabola evolutiva di tale settore del nostro ordinamento ; nel quale, all’idea di ingiustizia del danno in termini di lesività di diritti assoluti, col tempo si è andata sostituendo, prima, la consapevolezza dell’importanza che al riguardo va riconosciuta anche alla lesione dei diritti di credito , quindi, la convinzione che ogni situazione meritevole di tutela, se lesa in virtù di un atteggiamento scorretto, ha da essere risarcita . Riflettendo su ciò che sarà, o dovrebbe essere, in definitiva sembra lecito auspicare, per l’immediato futuro del nostro sistema civile, che il divieto di abuso del diritto, finalmente libero dalle paludi contrattualistiche e senza ipocrisie, approdi – attraverso l’elaborazione giurisprudenziale – a quella che appare la sua terra promessa.

Leave a Reply

My Agile Privacy

Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. 

Puoi accettare, rifiutare o personalizzare i cookie premendo i pulsanti desiderati. 

Chiudendo questa informativa continuerai senza accettare. 

Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: